Questa settimana, insieme ad un gruppo di altri giornalisti italiani ho partecipato a un press tour organizzato da Pen Ukraine, la ong di scrittori e intellettuali di cui faceva parte Viktoria Amelina, l’autrice ucraina morta lo scorso luglio nel bombardamento di Kramatorsk.
Il momento più intenso di questo tour, durato tutta la settimana, è stato la visita ai sotterranei della scuola di Yahidne, un villaggio a pochi chilometri dalla città di Chernihiv, dove i soldati russi hanno tenuto prigioniere quattrocento persone per quasi un mese.
In undici sono morti durante la prigionia e per giorni i sopravvissuti hanno dovuto convivere con i loro corpi. Guidati da Ivan, uno dei superstiti, per oltre un’ora abbiamo ascoltato i racconti di orrore e di brutalità di quei giorni. Quasi tutti piangevano.
Ognuno di noi ha una soglia oltre la quale la sola testimonianza del dolore ci travolge anche se non ci riguarda in prima persona. È un meccanismo fondamentale del nostro essere animali sociali. Un sottoprodotto dell’evoluzione che ci ha resi creature più adatte a sopravvivere proprio perché siamo in grado di cooperare gli uni con gli altri e quindi di sentire quel che sentono gli altri.
Non è un caso se chi è incapace di provare questi sentimenti è probabilmente affetto da una qualche patologia, causata spesso da una predisposizione genetica o da un danno cerebrale. Qualcosa di radicale deve venire a mancare per privarci di questa basilare empatia umana.
Come molte altre categorie - medici, militari, operatori umanitari - i giornalisti si trovano a fare i conti con il punto in cui, dentro ciascuno di noi, si trova questa soglia. Non è necessario andare in guerra o sul luogo di un disastro naturale per farlo. Quasi tutti in qualche momento della nostra carriera abbiamo dovuto telefonare ai parenti di un ragazzo o di una ragazza morti in un incidente stradale per chiedere loro una foto e un commento (e per molti è stato il momento in cui abbiamo deciso che non avremmo mai fatto cronaca locale).
Questa soglia può variare enormemente da persona a persona e può cambiare dopo traumi ed esperienze. A volte la si scopre in posti inaspettati. Un collega veterano di una decina di conflitti e apparentemente immune ad ogni forma di sentimentalismo è in grado di mandare all’aria un servizio per aiutare un animale in difficoltà.
Intorno al giornalismo esiste un continuo dibattito su questa soglia e su come si debba reagire una volta raggiunta. La regola ufficiale è semplice: le emozioni devono restare fuori dal mestiere. Se la scena che stai raccontando ti tocca troppo da vicino allora ti devi fermare e controllare due volte quel che hai scritto. Se sei troppo coinvolto dalle tragedie che ti circondano, presto diventerai incapace di raccontarle. Ed ancora prima di arrivare a questo punto, inizierai a raccontare ciò che provi e non ciò che vedi. Le emozioni troppo forti sono una spia rossa d’allarme.
Ma la regola generale si scontra non solo con la natura umana del giornalista, ma anche con quella di chi lo legge. Come fate, chiede il pubblico, a restare freddi e professionali di fronte a un grande disastro naturale, di fronte a un massacro, di fronte alle ingiustizie? Al giornalista raramente viene riconosciuta la professionalità del medico, che ha il diritto di decidere freddamente se tagliare o meno un arto, se salvare la madre o il bambino in grembo. Così, quando scatta una foto terribile da premio mondiale, il reporter finisce spesso accusato di essere uno sciacallo.
Tra le pressioni interne della nostra natura umana e quelle esterne di un pubblico a cui appariamo cinici e senza cuore, la regola numero uno, tenere fuori le emozioni dal lavoro, finisce spesso abbandonata. Succede tanto più oggi e tanto più in una guerra in cui la polarizzazione generata da qualsiasi conflitto si fonde con l’iper-emotivizzazione richiesta dai social network.
Ma se ha ancora senso tenere separati i giornalisti dagli attivisti, dai politici, dagli opinionisti, se c’è ancora bisogno di far parlare i fatti, che lasciati a sé stessi non hanno una voce, e non solo le emozioni, che sanno farsi sentire da sole, allora c’è ancora una buona ragione per tenere fede a questa vecchia regola, per quanto spietata o superata ci possa sembrare.
Bravo Davide
Bravo Davide 👍