La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi, diceva il generale prussiano Carl Von Clausewitz. E per questo, gli hanno fatto eco generazioni di Marxisti, è folle analizzarla come un fenomeno astratto e meccanico, separato dalla politica interna.
Nelle ultime settimane, sono stati pubblicati diversi articoli che analizzano la guerra in Ucraina attraverso le lenti dei suoi conflitti sociali interni. Alcuni elementi di questi articoli li ho riscontrati personalmente e così ho pensato di condividere con voi il loro contenuto, i punti su cui sono d’accordo e quelli che invece mi convincono meno.
Il primo articolo si intitola “Divario di classe o regionale? L’invasione russa e la divisione est/ovest dell’Ucraina”. L’autore, il sociologo ucraino Volodymyr Ischenko (qualche elemento in più su di lui più avanti), propone una nuova spiegazione per la polarizzazione politica dell’Ucraina e per la sua, temporanea secondo lui, ricomposizione dopo l’invasione russa.
Secondo Ischenko i due campi che si affrontano in ucraina più o meno fin dalla sua indipendenza nel 1991, che per semplicità chiameremo “filorussi” e “filoccidentali”, hanno un’origine essenzialmente sociale ed economica. Da erede della tradizione di analisi marxista, ritiene che gli elementi etnico culturali siano poco più di una sovrastruttura rispetto ai rapporti di forza sottostanti.
Nel campo dei filoccidentale, scrive Ischenko, troviamo la coalizione formata dalla classe media professionale ucraina alleata con i capitalisti che hanno interessi transnazionali (siano essi ucraini o stranieri che intendono investire in Ucraina) che hanno tutto da guadagnare da un processo di integrazione con l’Europa e dalla trasparenza e apertura che questo comporterebbe.
Dall’altro ci sono i “capitalisti politici”, grandi oligarchi e imprenditori che ottengono i loro profitti da una relazione stretta e informale con il potere politico. Questo gruppo guarda (o meglio: guardava, come vedremo tra poco) all’integrazione con la Russia che, a differenza di quella con l’occidente, non li espone alla concorrenza del capitalismo internazionale e non li costringere ridurre queii legami politici che garantiscono i loro profitti.
Negli ultimi decenni, i primi hanno vinto sui secondi, sostiene Ischenko. La massiccia mobilitazione della società civile a favore della causa filoccidentale messa in atto dalla classe media professionale ha spazzato via il clientelismo oligarchico sostenuto da Mosca. Da qui la rivoluzione del 2004 e poi quella del 2014.
La debolezza dei progetti politici usciti da queste rivoluzioni (i governi Yuschenko, Poroshenko e Zelensky, sconfitti dagli avversari alle elezioni o, nel caso di Zelensky prima del conflitto, precipitati nel gradimento generale) si dovrebbe alle loro difficoltà di proporre un progetto convincente per vasti segmenti della popolazione ucraina, a cui il crescente ricorso a una retorica patriottica e nazionalista non è riuscito a sopperire.
I ceti subalterni ucraini, infatti, si sono aggregati in modo meno che convinto tanto al progetto filorusso quanto a quello filoccidentale, poiché nessuno dei due, sostiene Ischenko, li rappresenta adeguatamente. Gli ucraini che hanno trovato una via d’uscita dalle difficoltà economiche con l’emigrazione, si allineano con i filoccidentali che promettono maggiore apertura e quindi ulteriori possibilità di scambio (guarda caso, oltre due terzi degli ucraini che hanno lasciato il paese prima della guerra provengono dall’Ucraina dell’ovest, la parte considerata più nazionalista e filoccidentale, mentre fino al 2014 solo il 6 per cento degli emigrati proveniva invece dalle regioni “filorusse” meridionali e orientali).
I dipendenti della macchina statale e parastatale (compresi molti pensionati) e i lavoratori dei grandi colossi industriali del sud e dell’est del paese, si allineano invece maggiormente con i filorussi, nel timore che l’adeguamento agli standard europei porti a tagli nella spesa pubblica e che la competizione internazionale metta a rischio i loro posti di lavoro.
Il fallimento iniziale dell’invasione unito alla sua brutalità hanno portato a uno svuotamento quasi completo del campo filorusso. Ciò che resta della classe oligarchica e una fetta considerevole di quegli ucraini che fino al febbraio 2022 guardavano, per quanto freddamente, più verso est che verso ovest sono diventati, per così dire, filoccidentali. Il sindaco di Odessa, l’ex filorusso Trukhaniv, è forse solo l’esempio più noto. Ma basta un giro a Kharkiv, a lungo capitale sovietica dell’Ucraina, per imbattersi in volontari dell’Azov che parlano russo come prima lingua.
Nella mia esperienza in Ucraina, diversi punti di questa ricostruzione suonano corretti. La propaganda filorussa può dire ciò che vuole a proposito di un’Ucraina dove le decisioni sono prese da minuscole minoranze nazionaliste sostenute da élite filoccidentali, ma la verità è che tanto le rivoluzioni quanto la presente difesa contro l’invasione godono di un enorme sostegno.
Provate a uscire una sera in un bar del centro di Kyiv, Kharkiv o Dnipro e chiedete ai 30-40 enni presenti quanti di loro hanno partecipato a Maidan o hanno un conoscente nell’esercito: nessuno resterà con la mano abbassata. Andate a teatro e alla fine spettacolo il regista vi chiederà di donare al battaglione in cui si è arruolato volontario. Andate al fronte e tra i volontari del 24 febbraio troverete avvocati, programmatori e piccoli imprenditori. L’albo d’oro degli artisti e degli intellettuali ucraini, oggi si legge come un lungo elenco di eroi morti in combattimento.
Ma se il ragionamento di Ischenko è corretto, mano a mano che la guerra prosegue e il sentimento di un pericolo esistenziale per la vita dei singoli si affievolisce, dovremmo assistere a un crescente distacco nei confronti del campo filoccidentale da parte non solo delle élite economiche (che in ogni caso la guerra ha reso sempre più deboli e inefficaci), ma soprattutto di quei ceti subalterni a cui l’attuale progetto nazionale fondato sull’adesione all’Europa non prometterebbe altro che sacrifici di sangue e un’integrazione economica di cui rischiano di essere gli ultimi a godere.
Questo distacco si può manifestare in diverse forme. Di quella attiva, cioè un’opposizione aperta alla prosecuzione del conflitto, al momento non c’è praticamente traccia - se ne vedono giusto i primi segni precursori nelle embrionali proteste per la demobilitazione dei soldati impegnati da due anni al fronte.
Quella passiva, invece, comincia a mostrare il suo volto. Le donazioni volontarie all’esercito stanno diminuendo, il reclutamento è sempre più difficile e il morale del personale mobilitato sempre più basso. In un articolo pubblicato pochi giorni fa, il comandante delle forze armate Valery Zaluzhny - che Zelensky sarebbe pronto a cacciare - sembra riconoscere proprio questo problema quando parla della «incapacità delle istituzioni ucraine di aumentare il personale delle forze armate senza essere costrette a ricorrere a misure impopolari».
Per quanto personalmente non mi sento di sposare in tutto la tesi di Ischenko, personaggio controverso anche all’interno del piccolo mondo della sinistra ucraina - accusato, tra le altre cose, di raccontare ai progressisti internazionali ciò che vogliono sentirsi dire sull’Ucraina e di descrivere il paese pur vivendo da anni in Germania - penso ci sia più di qualche elemento di verità nella sua analisi.
Il secondo articolo che vi propongono, scritto da Luke Cooper, ricercatore di economia alla London School of Economics, parla invece di come questa china potrebbe essere invertita. Secondo Cooper, le necessità del conflitto stanno spingendo il governo di Zelensky a rafforzare lo stato Ucraino attraverso una sorta di “keynesismo di guerra” che va in contrasto non solo con le basi ideologiche del governo stesso, essenzialmente libertario, ma anche con la strategia di “volontarismo e mercato” adottata nella prima fase del conflitto.
Ricollegandoci al discorso di Ischenko, un governo che si impegna a consolidare uno stato forte e dove l’impiego nell’esercito e nell’industria militare costituiscono, tramite alti stipendi, una prospettiva di reale emancipazione economica, unita alla prospettiva che questi cambiamenti non scompaiono con la fine delle ostilità, potrebbe generare un maggiore coinvolgimento nel progetto nazionale da parte degli ucraini meno politicizzati e quindi un allargamento della coalizione che sostiene il progetto filoccidentale.
Cooper è molto ottimista sulle possibilità che dal conflitto esca uno stato ucraino forte invece di una sorta di Singapore sul Dnipro (la metafora utilizzata spesso dagli ucraini libertari). E forse è vero che il governo ucraino si è accorto che mercato e volontarismo non sono sufficienti a proseguire la guerra, ma che a questo corrisponda la determinazione di creare le basi di un forte stato post-conflitto (per non parlare della fattibilità di un simile progetto) mi pare tutto meno che scontato.
Inoltre, ho l’impressione che questo ragionamento non consideri abbastanza le dimensioni della coperta di cui stiamo parlando. Promettere alti stipendi ai soldati mobilitati e aumentare l’impiego pubblico nei settori chiave della difesa significa che a qualcuno toccherà qualcosa in meno. Giusto per fare un esempio, il governo è intenzionato a riformare la tassazione per gli “imprenditori autonomi”, un regime fiscale ultra vantaggioso (l’aliquota parte dal 2 per cento) e utilizzato soprattutto per aggirare la necessità di assumere utilizzando regolari e più onerosi contratti (come le nostre “finte partite Iva”, ma su una scala forse ancora più vasta).
Per Cooper è il segnale di una positiva razionalizzazione del sistema fiscale. Ma questo regime è ampiamente utilizzato dalla classe media intellettuale e professionale, che lo utilizza per sopravvivere dignitosamente in un paese dove gli stipendi sono bassi e sproporzionati al costo della vita nelle grandi città. Diversi miei conoscenti sono già allarmati dalla prospettiva di dover passare a regolari contratti di lavoro, che porterà quasi inevitabilmente a una riduzione delle loro entrate.
Insomma, non si possono accontentare tutti e, per dirla nella maniera più cruda, dare agli agricoltori galiziani mobilitati nell’esercito potrebbe significare togliere ai lavoratori dell’informatica di Kyiv. Cosa accadrebbe se seguendo questa strada il governo Zelensky, già in calo di popolarità da oltre un anno, dovesse perdere il sostegno di una parte significativa di quella classe media che ha costituito la spina dorsale non solo del suo governo, ma dell’intero progetto politico di un’Ucraina indipendente e integrata con l’Europa?
Alcuni hanno già una risposta. «Proverà a fare la pace con la Russia, a ogni costo», mi ha detto ieri un’amica ucraina, poliglotta rappresentante della classe media cosmopolita, che dona all’esercito ogni mese e passa i finesettimana ad addestrarsi con un gruppo paramilitare. Che farebbe lei di fronte a questo scenario, come si comporterebbero i suoi amici ed i suoi compagni di corso è, per il futuro del conflitto, una domanda forse più importante di quale nuova arma gli Stati Uniti spediranno o non spediranno in Ucraina nei prossimi mesi.