La morte di Alexej Navalny è stata accolta con sentimenti molto diversi in Ucraina rispetto al resto d’Europa. Qui, l’oppositore politico russo era considerato una figura controversa, a cui non è mai stato perdonato l’atteggiamento come minimo ambiguo sulla sovranità del paese (ne ho scritto su Domani).
Qualsiasi ucraino abbia un po’ di familiarità con Navalny ricorda la risposta data dall’attivista a chi gli chiedeva cosa avrebbe fatto della penisola di Crimea, da poco annessa dalla Russia, se fosse diventato presidente: «La Crimea non è un panino col salame a cui si può far fare avanti e indietro».
La famigerata dichiarazione è solo un punto dei lunghi thread e degli articoli che elencano le posizioni controverse dell’attivista tornati a circolare in questi giorni. Un elenco parziale include: marce insieme agli ultranazionalisti, appoggio all’invasione della Georgia, proposta di espulsione di tutti gli immigrati centroasiatici dalla Russia, con paragone degli stessi a carie dentali e utilizzo di epiteti razzisti, promozione la creazione di un paese etnicamente omogeneo e integrazione di Ucraina e Bielorussia.
La morte dell’attivista, ha portato così la classe intellettuale ucraina a suonare, per la prima volta dall’inizio della guerra, lo stesso spartito dei circoli radicali di Europa e Stati Uniti, che sulla causa ucraina sono così scettici. Navalny, sostengono tanto le élite culturali di Kyiv quanto la sinistra più progressita, era un etnonazionalista grande russo, un razzista, un imperialista e, nelle versioni più estreme di questi argomenti, un personaggio diverso da Putin soltanto perché quest’ultimo il potere lo aveva già conquistato, mentre Navalny era ancora alla sua ricerca.
Tutto vero, almeno in superficie. Ma la storia non può considerarsi completa senza menzionare che questo è essenzialmente il passato di Navalny. È il nocciolo della sua vicenda politica tra 2007 e 2014, durante la sua ascesa da sconosciuto ex militare della provincia russa a star internazionale dell’opposizione liberale al Cremlino.
Dal 2015 in poi, Navalny ha moderato le sue posizioni e anche se non ha mai rinnegato i suoi commenti passati (con alcune eccezioni, come le scuse per le sue parole sulla Georgia) si è trasformato in un progressista cosmopolita con ben poco di problematico. Il passaggio è stato accuratamente riassunto in un articolo per il New Yorker da Masha Gessen, giornalista di origine russa, sotto mandato di arresto del regime di Putin che oggi vive in esilio negli Stati Uniti (a sua volte, Gessen - che si identifica con i pronomi they/them - è considerato da molti intellettuali ucraini in modo solo leggermente migliore di Navalny).
La verità è che il nazionalismo di molti liberali russi (ricordiamo l’alleanza dell’ex campione di scacchi Kasparov con il nazi-bolscevico Limonov) è stato per buona parte il frutto della necessità pragmatica di trovare alleanze e creare un fronte comune per sconfiggere il regime di Putin.
Non sembra un caso se la moderazione di Navalny abbia coinciso con la fine delle sue possibilità concrete di ottenere una vittoria elettorale nel suo paese e il suo crescente bisogno di affidarsi, per fondi, pubblicità e sostegno, alla comunità internazionale e a quella degli esuli russi, molto più progressiste della base elettorale di cui era alla ricerca in Russia.
Per quanto legittimo oggetto di critiche, si tratta di una strategia che dovrebbe suonare familiare a quei progressisti ucraini che a partire dal 2014 hanno messo in secondo piano la battaglia contro la destra nazionalista in nome della difesa dell’indipendenza del paese. Ma il nazionalismo genera curiosi paradossi. Più lo si adotta e più si finisce per allontanarsi da chi lo pratica al di là dei propri confini.
Si tratta dell’insolubile dilemma che rende impossibile alle destre radicali europee di formare stabili alleanze. Oggi, in Ucraina, impedisce a una classe media intellettuale spinta dall’invasione e dalla sua brutalità su posizioni sempre più massimaliste di trovare una sponda nell’opposizione russa, siano essi Navalny o Gessen, poiché qualsiasi tracce di patriottismo nelle loro posizioni ai loro occhi somiglia a una giustificazione della guerra o, peggio, a una promessa della sua prosecuzione anche sotto un nuovo regime.
Mi sembra doveroso ricordare che europei e americani non sono nella posizione migliore per giudicare né gli uni e né gli altri. Non solo perché non siamo né invasi né sotto una ventennale e violenta dittatura, ma perché lo stesso tipo di pragmatici compromessi con il peggiore nazionalismo sono il pane quotidiano delle nostre élite politiche e intellettuali. Il nostro vocabolario è certo più elegante di quello di Navalny e siamo più schizzinosi del movimento Azov nella scelta dei simboli, ma quando si tratta di politiche concrete, ad esempio, sull’immigrazione, sorvegliamo i nostri confini con la stessa brutalità della polizia russa o delle squadracce di Settore destro.
Il fascino e l’intensità delle emozioni suscitate da figure come Navalny sono forse il segnale che l’attivista russo era, in fondo, uno specchio, in cui si riflettono le migliori qualità e i più profondi dilemmi che dividono coloro che lo osservano? Penso sia un tema su cui riflettere è più importante che dividersi in squadre di sostenitori e detrattori.
Sono tornato spesso su questi pensieri negli ultimi giorni. Questa settimana ho partecipato al tour organizzato a Kyiv dallo European-Ukraine Desk, progetto della ong N-Ost (uno dei vari impegni che mi scusano dall’aggiornare con la regolarità promessa questa newsletter). Come nel corso del tour avvenuto un anno fa (che è poi la ragione per cui mi trovo qui - possibile argomento di una futura newsletter, ora che ci penso), uno degli eventi principali è stata una lezione del filosofo Volodymyr Yermolenko, tra gli intellettuali ucraini più acuti e affascinanti da ascoltare.
Al centro della sua lezione c’era un argomento caro a molti ucraini: la lettura del rapporto tra Russia e Ucraina come quello tra un impero e la sua colonia - un punto su cui, come ha efficacemente riassunto una storica della regione, la giuria deve ancora emettere un verdetto.
Contraddizione apparente in questo paragone, e che Yermolenko non manca mai di indicare, risolvendola come un’eccezione che conferma la regola, è che nessun impero ha mai cercato di integrare i sudditi delle sue colonie, come invece la Russia ha fatto con l’Ucraina, proibendone la lingua, limitandone i costumi, propagandando la narrazione dell’unità dei due popoli.
Se guardiamo alla storia, chi impone la propria lingua e cerca di assimilare i popoli a esso sottoposti non sono tanto gli imperi, multiculturali per natura, ma gli stati nazione. E se quanto fatto dalla Russia in Ucraina non fosse tanto, o solo, un processo coloniale, ma un tentativo di costruzione nazionale? Riconoscerlo in quanto tale, e riconoscere la brutale violenza con cui venne portato avanti, evocherebbe spettri infelici per un élite intellettuale che si sente a sua volta coinvolta in un processo di nation-building.
Forse il succo di questo ragionamento è la nozione banale che ciò che detestiamo nei nostri nemici non è tanto ciò che ci divide, quanto quello che ci rende simili. Banale forse, ma non per questo da dimenticare.
Molto interessante
Bravo Davide