Tra tutti i commenti che hanno accompagnato questo secondo anniversario dell’invasione dell’Ucraina, quello che mi ha colpito di più è stato il breve video pubblicato sabato mattina dal presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. Il filmato è abbastanza usuale per i suoi standard. Zelensky si riprende da solo con il telefono, parla con la sua consueta voce baritonale su uno sfondo che attira l’attenzione - le rovine dell’aeroporto di Hostomel, teatro di una battaglia chiave nelle prime 24 ore dell’invasione.
Anche il contenuto del filmato è quello consueto: una dichiarazione di fiducia in un esito favorevole del conflitto e un plauso alla tenacia dei suoi concittadini. Le parole che ha scelto, però, sono insolite. Forse persino senza precedenti. Penso valga la pena rileggere per intero la parte saliente del suo messaggio.
Qualsiasi persona normale vuole la fine della guerra. Ma nessuno di noi permetterà la fine dell’Ucraina. Per questo, quando si tratta di finire la guerra, noi aggiungiamo sempre: alle nostre condizioni. Questa è la ragione per cui, accanto la parola pace deve averne a fianco sempre un’altra: giusta. Questa è la ragione per cui, nel futuro, la parola indipendente apparirà sempre insieme alla parola Ucraina. Questo è ciò per cui combattiamo.
Analizziamo riga per riga questo messaggio. Zelensky inizia riconoscendo la stanchezza per il conflitto che pervade il suo paese e non solo - il video è in ucraino, ma sottotitolato in inglese, così come in inglese è il testo che accompagna il video sui social. A chi è scettico nei confronti della propaganda ufficiale che assicura la certezza della vittoria, Zelensky porge un metaforico ramoscello d’ulivo: «Siete persone normali», dice loro.
Zelensky prosegue nel definire cosa invece le persone non vogliono: la «fine dell’Ucraina». Non è un’Ucraina potenzialmente mutilata quella che non vogliono, ma la distruzione del paese, la perdia dell’indipendenza. Zelensky ribadisce il concetto poco dopo. Il conflitto deve finire, ma alle «nostre condizioni» e deve essere seguito da una pace giusta. Cos’è una pace giusta? Una in cui l’Ucraina rimane «indipendente». Questo, conclude, «è ciò per cui combattiamo».
In nessuna parte del messaggio Zelensky utilizza la parola “vittoria”, né parla dei confini del 1991, né di riconquista dei territori perduti. La guerra finirà, sembra dire Zelensky, quando assicureremo l’indipendenza dell’Ucraina con una pace giusta. Non serve sottolineare come queste affermazione rappresentino uno slittamento tettonico rispetto alla retorica di pochi mesi fa. Quasi un ritorno ai toni della primavera 2022, quando le delegazioni ucraine e russe si incontravano per trovare un compromesso che mettesse fine al conflitto.
È improbabile che queste siano parole scelte a caso. Parliamo di un messaggio diffuso su tutti i social e da tutte le agenzie di stato, in un momento altamente simbolico come il secondo anniversario del conflitto. Non penso che sia sovrainterpretare il testo leggerci un primo passo pubblico in vista di una graduale ridefinizione degli obiettivi del conflitto. Dalla restituzione di tutti i territori occupati, a qualcosa che somiglia a un compromesso, magari temporaneo.
O meglio, sarebbe sovrainterpretazione se non avessimo altri elementi più concreti che ci dicono che dalla scorsa estate qualcosa è cambiato alla Bankova, il palazzo presidenziale di Kiev. Prima di tutto, abbiamo i dietro le quinte. Quello che i funzionari ucraini dicono a microfoni spenti ormai da sei mesi. E cioè, che vincere la guerra, secondo la definizione ufficiale di “vittoria”, è ormai impossibile o politicamente troppo costoso.
Queste voci arrivavano dall’opposizione e dai circoli governativi, ma fino ad oggi, persino i retroscena più disfattisti mostravano un ufficio presidenziale ancora determinato. Nel lungo articolo pubblicato da Time a ottobre, in cui il giornalista Simon Shuster racconta i dietro le quinte della leadership ucraina, Zelensky era descritto come l’ultimo, disperato difensore dell’idea che la guerra potesse ancora concludersi con una vittoria totale.
Ora sembra che anche la sua determinazione si sia incrinata. L’indizio principale si chiama legge sulla mobilitazione. L’Ucraina ha un disperato bisogno di nuovi soldati per proseguire il conflitto. Almeno mezzo milione, secondo l’ex comandante in capo delle forze armate, Valery Zaluzhny. Ma la legge che allarga la platea di chi può essere reclutato e aumenta le punizioni per chi si sottrae, è bloccata ormai da più di tre mesi in un continuo rimpallo tra governo e parlamento.
Zelensky potrebbe utilizzare il suo enorme peso politico per sbloccare lo stallo, ma non lo sta facendo. Anzi, le rare volte che ha parlato pubblicamente di mobilitazione è stato per dire è scettico sui numeri di nuovi soldati richiesti dai militari. La mobilitazione è impopolare, certo, e gli imprenditori ucraini stanno facendo le barricate per fermarla.
Ma come si può conciliare una retorica ufficiale che, almeno fino a poco tempo fa, parlava di una guerra esistenziale, della volontà di riconquistare l’intero paese, di infliggere alla Russia una sconfitta storica, con l’esitazione a richiamare in servizio i soldati necessari, non a vincere, ma a proseguire la difesa di quanto non ancora occupato? Sul Post ho iniziato a riflettere su queste contraddizioni. Forse, il messaggio di ieri ci dà una prima risposta.
Le stesse contraddizioni emergono sul fronte della mobilitazione economica. In molti - me compreso - hanno scritto dell’apparente normalità con cui la vita continua a scorrere nelle città ucraine lontane dal fronte. Il dibattito su questo fenomeno, anche in ucraina, ruota intorno a considerazioni di natura morale che si possono tradurre in una domanda che suona più o meno: «Come possono le persone godersi la vita quando i soldati muoiono al fronte?».
La questione, a mio parere, è mal posta. Se i locali e i ristoranti sono aperti, se i taxi continuano a circolare e sei i supermercati sono pieni di prodotti stranieri, è normale che le persone - compresi i militari in licenza dal fronte - escano la sera, si facciano portare in giro in taxi e comprino vino francese al supermercato. Il punto è perché in un paese impegnato in una guerra definita “esistenziale”, tutti questi beni restano disponibili.
In una guerra totale, la vita è austera non per solidarietà con le truppe al fronte, ma perché ogni centesimo di valuta estera disponibile viene utilizzato per importare armi, invece che per importare cibi sofisticati. Non circolano taxi perché la benzina viene mandata al fronte, insieme ai taxi stessi. I teatri sono chiusi perché gli attori sono al fronte.
Secondo diversi economisti ucraini, ci sono limiti oggettivi a quanto si possano limitare le attività non militari prima di danneggiare l’economia al punto di causare danni allo stesso sforzo bellico. Forse hanno ragione nel dire che un’economia moderna come quella Ucraina non può raggiungere i livelli di spesa militare toccati ad esempio dal Regno Unito nella seconda guerra mondiale, oltre il 50 per cento del Pil, o della Germania, 75 per cento (e d’altro canto, in epoca moderna, nessuno ci ha mai provato).
Ma l’Ucraina oggi spende poco più del 30 per cento del suo Pil in spese militari, di cui forse la metà proviene da aiuti internazionali. Davvero, sarebbe impossibile aumentare la mobilitazione economica se ci fosse la volontà politica di farlo? Domanda retorica, perché la volontà politica non c’è.
A molti ucraini, tutto questo non suonerà affatto nuovo. C’è un segmento patriottico e determinato della classe media ucraina frustrato da quelle che considera mezze misure nella difesa del paese e che considera la postura bellicista di Zelensky poco più di una posa. Non dimenticano che Zelensky era stato eletto nel 2019 con la promessa di fare la pace con la Russia, che fino all’ultimo giorno era scettico sull’invasione e che prima dell’attacco ha consentito soltanto a un minimo di preparazione alle forze armate.
Nell’ultimo anno e mezzo questo gruppo è stato sorpreso - e grato - per l’atteggiamento massimalista che Zelensky ha adottato sul conflitto, ma non si è mai convinto del tutto e oggi si sente giustificato nell’aver mantenuto vivi i suoi sospetti. Zelensky aspetta solo l’occasione di negoziare, dicono.
Tutto questo può essere smentito, ovviamente. Se Zelensky imporrà una nuova mobilitazione, umana e militare, se riaffermerà la sua intenzione per una vittoria totale, sapremo che i sospetti di molti ucraini - e le teorie che trovate espresse in questo testo - sono ingiustificati.
Ma se invece questi indizi sono davvero la prima traccia che Zelensky si prepara a cercare una fine del conflitto, la mia sensazione è che nel paese troverà una coalizione disposta a sostenerlo, formata dai grandi interessi economici e dai ceti subalterni, in particolare quelli dell’est dell’Ucraina - i più colpiti dalla guerra, ma anche i meno coinvolti nel suo aspetto etnico-ideologico (qui avevo scritto della componente di “classe” della guerra in Ucraina).
Se davvero siamo di fronte all’inizio di una svolta, non è detto né che sarà rapida né che procederà senza contrasti o intoppi. Il Cremlino sarà disposto ad offrire condizioni di pace o cessate il fuoco accettabili? Come reagirà la parte di società ucraina, che per convinzione o per aver perso nel conflitto i propri beni e i propri cari, di negoziato non vuol sentir parlare? E come si potrebbe tradurre in pratica questa svolta? Domande complicate a cui non è detto che troveremo una risposta molto presto.