Se è la prima volta che capiti, mi chiamo Davide Maria De Luca, sono un giornalista e da poco più di un anno vivo a Kyiv dove faccio il reporter di guerra. Se ti piace quello che leggi, condividilo con qualcuno a cui pensi possa interessare. E se vuoi sostenermi, puoi iscriverti alla newsletter o seguirmi su X.
Ricordo perfettamente cosa ho fatto mille giorni fa, fin dal primo momento in cui mi sono svegliato. Ricordo di aver aperto gli occhi che erano le sei di mattina. Mi ero alzato giusto in tempo per leggere il discorso con cui Vladimir Putin annunciava l’invasione dell’Ucraina.
Non sono un mattiniero, né avevo puntato la sveglia prima di addormentarmi, aspettandomi l’invasione. La sera prima, nella redazione di Domani a Roma, avevo scommesso che non ci sarebbe stata nessuna guerra. «Immaginatevi se ci fosse e se per la Russia finisse come in Afghanistan», avevo scherzato. Ero tra quelli che non credevano che il presidente russo sarebbe stato così spregiudicato da inviare carri armati oltre una frontiera europea.
Poi, come per uno strano istinto, il 24 febbraio 2022 ho aperto gli occhi molto prima del solito, ho preso il telefono e tra le prime fotografie che mi sono comparse davanti agli occhi ho visto il fermo immagine di una telecamera di sicurezza che mostrava una guardia di confine ucraina scappare davanti all’avanzata di un blindato russo.
Qualche giorno dopo, scoprii che quella era - in ordine di tempo - la prima istantanea del conflitto, scattata presso un posto di confine nell’Ucraina meridionale, pochi istanti prima che il primo russo soldato varcasse il confine. Gli orari sovraimpressi sul filmato indicano che era stato girato intorno alle 4 di mattina. Putin doveva ancora fare il suo discorso, ma la guerra era già iniziata.
La prima persona a cui ho pensato quella mattina, è stata Olga Tokariuk, una giornalista ucraina. Non ci eravamo mai incontrati di persona, ma - a distanza - avevamo collaborato insieme sul caso Vitaly Markiv, il soldato ucraino processato in Italia per l’uccisione del giornalista Andy Rocchelli, morto in Donbas nel 2014. Avevo letto e ammiravo il suo lavoro. Per Hromadske, dove Olga lavorava all’epoca, avevo fatto un paio di interviste sulla politica italiana. Il 24 febbraio, leggevo con orrore i Tweet che Olga scriveva sotto le bombe e in fuga dalla città. Le scrissi un messaggio di vicinanza che probabilmente suonava banale. La guerra all’improvviso mi sembrava incredibilmente reale e terrificante.
Mentre scrivo queste righe, l’allarme aereo fa irruzione dalla finestra. Mezzanotte è passata esattamente da 35 minuti. Tra poche ore, Zelensky parlerà al Parlamento europeo e poi a quello ucraino per i mille giorni di conflitto. Il suono delle sirene è lungo e penetrante, impossibile da ignorare. Due notti fa, in città è stato molto rumoroso - come si dice qui quando c’è un grande attacco aereo - e sappiamo che in questi giorni Putin è nervoso. Controllo sui canali semi-ufficiali che monitorano l’aviazione russa cosa ha scatenato l’allarme. In aria c’è solo qualche drone - non c’è molto di cui preoccuparsi. Rassicuro la mia compagna sull’esito del mio controllo, che annuisce e non sembra averne bisogno.
Il centro di Kyiv, la vecchia Pechersk, Sofiivska, dove vivo da più di un anno, Porta Dorata e anche il quartiere basso, Podil, sono la parte più sicura della città. Qui hanno sede le ambasciate, le organizzazioni internazionali, quelle umanitarie e ci sono gli hotel a 5 stelle, che ospitano funzionari dell’Onu e diplomatici. Un appartamento su due è affittato a un expat.
Ma i bersagli dei droni e dei missili non sono molto lontani. A tre chilometri in linea d’aria ha sede l’Artem, una fabbrica di armi. In mezzo, palazzi civili di trenta piani. A poche centinaia di metri dall’Artem c’è l’ospedale Okhmatdyt. Durante gli attacchi, dalle mie finestre posso vedere le scie dei missili intercettori ucraini e vedere i traccianti delle mitragliatrici. La maggior parte delle esplosioni suonano lontane. Da questo autunno, sono quasi quotidiane. Ogni notte, arrivano 4-5 droni russi, saggiano le difese e finiscono quasi tutti intercettati. Qui, nella Vecchia Kyiv, è un disturbo. Per chi vive alla periferia, sono notti insonni da mesi, spesso spese nei corridoi o nei rifugi. Per chi ha la sfortuna di trovarsi sulla rotta di uno di questi droni, o lungo la traiettoria del suo relitto abbattuto, è ancora peggio.
È difficili non solidarizzare con i civili bombardati dal cielo. Il nostro compasso morale in genere pende dalla parte dei più deboli. Per questo, la causa ucraina mi ha sempre attirato, come il proverbiale Davide della storia biblica - fin da quando, nell’inverno del 2013, quando lavoravo per il Post, non iniziai a scrivere della rivoluzione di Maidan.
La mattina del 24 febbraio, di fronte alle notizie del conflitto, alle fotografie postate da Olga, mi sentivo di fronte a una mostruosa ingiustizia. L’invasione mi appariva come il sopruso di un bullo sicuro di farla franca, la vicinanza agli ucraini mi sembrava un dovere morale. Dopo mille giorni di guerra, non è cambiato molto.
Possiamo discutere, ed io spesso l’ho fatto, delle cause profonde della guerra, dell’ipocrisia degli alleati dell’Ucraina, dei limiti e degli errori della sua leadership. Rimane il fatto che mille giorni fa una grande e potente nazione ne ha aggredita una più piccola per imporle il suo volere con la forza. Questo fatto elementare non può che essere il punto di partenza di qualsiasi ragionamento che tiri in ballo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Ma gli imperativi morali chiari - proteggere i più deboli, fermare chi fa del male - possono coesistere con la critica razionale. Accettarne le contraddizioni che questo comporta è un lusso che chi si trova coinvolto non sempre si può permettere, ma che rappresenta un dovere per chi invece a questi eventi ha la fortuna di assistervi soltanto, soprattutto se per mestiere è lì per raccontarli.
Con enormi limiti e facendo molti errori, questo è quello che ho provato a fare in questi mille giorni di guerra, 454 dei quali passati vivendo in questo paese. L’ho fatto anche tramite questa newsletter, che spero ora di riprendere con maggiore frequenza - la lunga pausa è dovuta a un viaggio in Georgia, per raccontare le elezioni, e ad altre escursioni in Ucraina, dei cui risultati spero di potervi parlare presto. Se volete sostenermi, è sufficiente iscrivervi a questa newsletter e parlarne a chi pensate possa essere interessato. Come sempre, grazie per aver letto fino a qui!
Grazie.