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Che cosa facciamo noi che dall’Europa e dagli Stati Uniti siamo venuti in Ucraina o che ne scriviamo e parliamo nei nostri paesi? Parecchie cose i cui confini sono spesso piuttosto labili. Qualche riflessione, un po’ meno ordinata del solito.
Tutto parte da un thread su X che ho scritto a fine marzo e che è diventato semi-virale. Punto centrale del mio argomento era suggerire ai sostenitori dell’Ucraina in Italia un cambio di tattica comunicativa per interloquire in maniera più produttiva con coloro che sono scettici nei confronti della politica ufficiale del governo sul conflitto, in particolare quelli si sentono rappresentati dalle parole dell’ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte.
Dopo la pubblicazione del thread, mi hanno invitato a parlarne nel podcast di Internazionale e nel canale YouTube Liberi e Oltre, spazio di discussione che ha come principale mattatore l’economista Michele Boldrin.
Com’è naturale nel caso di qualsiasi contenuto che ottiene numerose visualizzazioni, ho avuto parecchie reazioni forti e critiche. Il thread è arrivato persino ad alcuni amici ucraini che non parlano italiano, lo hanno tradotto e hanno poi espresso la loro contrarietà ad alcuni dei miei argomenti.
Faccio subito un mea culpa. Il mio thread aveva una contraddizione di fondo, poiché, mentre argomentavo che per persuadere gli scettici bisogna cercare di ragionare con loro senza respingerli con critiche brutali, a mia volta criticavo brutalmente coloro che volevo persuadere. Meccanismi perversi generati dal diabolico incrocio di social e narcisismo: un mese prima avevo portato avanti lo stesso argomento con toni molto più sobri. Risultato? Discussioni molto più civili, ma anche meno di un decimo delle visualizzazioni.
A monte di questo problema c’è però una questione molto più significativa. L’intero thread era, in sostanza, una collezione di mie opinioni. È il nostro lavoro, in quanto giornalisti, dare voce alle nostre opinioni o non dovremmo piuttosto occuparci di raccontare fatti e storie? Se lavorassi per una grande agenzia o in un prestigioso quotidiano internazionale, probabilmente non avrei potuto scrivere quel thread senza violare le regole interne che impongono una stretta neutralità e aderenza ai fatti di ciò che si produce.
Ci riflettevo parlando con il mio amico e collega Paolo Mossetti, anche lui veterano dell’Ucraina. Da un lato, il nostro essere freelance, e quindi liberi di scrivere un po’ quello che vogliamo, ci consente un’ampia autonomia nell’affrontare anche le questioni politiche più controverse - come ad esempio la qualità e le evidenti mancanze del fronte che nel nostro paese sostiene l’Ucraina.
Dall’altro, è difficile sfuggire alla sensazione che quando facciamo “opinionismo” stiamo solo gettando un altro parere nel gran calderone caotico di un dibattito feroce e polarizzato. La tensione tra questi due atteggiamenti e il dibattito sul punto esatto in cui situare il confine tra loro durano da quando esiste il moderno giornalismo e non hanno una soluzione. Ma proprio per questo dobbiamo sempre tenerli presenti (ne avevo parlato anche qui, quando avevo trattato di come noi giornalisti reagiamo di fronte alle storie orribili ed emotive che siamo costretti a raccontare).
Nella conversazione con Michele Boldrin - a cui hanno partecipato anche Andrea Gilli e Costantino De Blasi - è emerso anche un altro punto, su cui invece credo si possa assumere una posizione più chiara. L’idea, portata avanti da Boldrin in particolare, è che, anche quando ci si limita soltanto a raccontare i fatti, si rischia di finire con il perdere la propria neutralità e diventare parte attiva nel dibattito.
Non è un ragionamento errato. Il media che riporta esclusivamente crimini commessi da persone di origine straniera ha probabilmente un’agenda politica e non sta facendo un buon servizio al dibattito pubblico. Ma da questo punto di vista è facile scivolare nell’eccesso opposto e, nella conversazione con Boldrin, mi pare che ci siamo sbilanciati parecchio in quella direzione.
Nel caso dell’Ucraina, la soglia che credo non debba essere passata è sostenere che parlare di fatti “scomodi” per Kyiv sia prendere una posizione a favore della Russia. È un altro confine, non quello tra giornalismo e opinionismo, ma quello tra giornalismo e attivismo.
È abbastanza ovvio che gran parte di chi si occupa di questo conflitto, e soprattutto chi come me lo fa da qui, abbia una forte simpatia per l’Ucraina. Perché è il paese aggredito e perché è un Davide contro un Golia. Non saremmo qui, altrimenti. Ma allo stesso tempo, la nostra etica professionale ci impone di cercare di scindere il più possibile queste simpatie da ciò che facciamo per lavoro tutti i giorni. Non è certo meno nobile impegnarsi al cento per cento a favore dell’Ucraina, raccogliendo donazioni, facendo volontariato, manifestando. Ma è un altro mestiere.
Questo punto emerge spesso quando come giornalisti stranieri ci confrontiamo con il pubblico ucraino, come durante un dibattito a Kyiv lo scorso dicembre, a cui ho partecipato insieme ai miei colleghi Rebecca Barth, del network tedesco ARD, e Azad Safarov, produttore di Sky News. A volte, alle legittime domande degli spettatori, l’unica risposta possibile è ribadire che non siamo attivisti, ma giornalisti.
A questo aggiungo un altro punto - alas, un’altra mia opinione. Penso che nell’attuale conflitto l’argomento più solido a favore dell’Ucraina sia quello morale. L’Ucraina va aiutata perché paese invaso, perché paese più debole, perché paese che ha chiesto aiuto. Per rendere più forte questo argomento, credo sia importante chiarire al pubblico di Europa e Stati Uniti la natura profondamente diversa dell’Ucraina rispetto al suo invasore. Una democrazia, certamente imperfetta, una società liberale e plurale contro una dittatura sempre più asfissiante.
Stendere un velo sulle mancanze del governo ucraino, passare sopra agli errori in nome del fronte unito contro il nemico, contribuisce solo a generare in una parte del pubblico l’impressione, falsa, che tra invasore e invaso non ci sia poi questa grande differenza. Ed è questo l’argomento anti-ucraino più insidioso.
Siamo degli illusi se pensiamo che non riportare le notizie sui casi di corruzione negli alti ranghi del governo di Kyiv o i problemi nel reclutamento di nuovi soldati significhi proteggere il nostro pubblico dalle cattive notizie. No, le cattive notizie arriveranno comunque, ma da fonti parziali e con una chiara agenda anti-ucraina. E contribuiranno a generare l’impressione che in fondo anche i nostri media, come quelli del Cremlino, non dicono tutta la verità.
Per noi giornalisti, l'autocensura, la militanza, il timore di scrivere qualcosa che potrebbe «danneggiare l'Ucraina» sono nemici insidiosi quanto la propaganda russa. Tenere alta la bandiera della trasparenza non è solo un dovere etico, ma va a tutto vantaggio dell’Ucraina. Nella battaglia per dimostrare che Kyiv non è Mosca, ammettere un errore è più importante di un aereo abbattuto.
Bravo
Complimenti per la riflessione, molto condivisibile. Ahimè mi viene in mente il candore con cui Fubini, vicedirettore del Corriere, ammise di aver (auto)censurato in un articolo sulla Grecia gli effetti dei tagli draconiani cui erano stati obbligati dalla Troika sulla salute dei bambini (aumento mortalità, tagli di welfare) per non dare argomenti ai sovranisti pro italexit. Ma invece discutere dei limiti della UE non è il modo migliore per superarli?