Se è la prima volta che vedi questa newsletter qui puoi trovare qualche informazione su chi sono e su che cos’è questo progetto. Nell’ultima puntata mi sono chiesto provocatoriamente se il presidente ucraino Volodymyr Zelensky vuole ancora vincere la guerra. Oggi invece parliamo di sonno e di bombe. Se ti piace quello che leggi, condividilo con qualcuno a cui pensi possa interessare. E se vuoi sostenermi, puoi iscriverti alla newsletter o seguirmi su X.
Quando mi sono trasferito a Kyiv, lo scorso agosto, i primi giorni sono stati piuttosto movimentati. La notte del 31, la città è stata colpita dal più massiccio attacco aereo dalla primavera precedente. La battaglia aerea tra le difese della città e una cinquantina di droni e missili russi è durata dalle 3 alle 6 di mattina.
Nonostante abitassi al quinto piano di un palazzo in centro, ho passato una notte tranquilla e sono venuto a sapere cos’era accaduto soltanto al mattino, leggendo le notizie. La storia si è ripetuta con gli attacchi dei giorni successivi. Non c’era modo che sirene ed esplosioni mi svegliassero. A raccontarlo agli amici di Kyiv, che avevano passato la notte in corridoio o addirittura in metropolitana, mi sentivo a metà tra l’incosciente e lo sbruffone - e i loro sguardi indicavano che la prima era l’interpretazione favorita.
Sapevo che non era questione di avere un sonno profondo. Avevo avuto la stessa esperienza a maggio, durante il mio primo viaggio in Ucraina - per coincidenza, la settimana di bombardamenti a cui quello di agosto veniva paragonato. Gli allarmi aerei erano suonati quasi tutte le notti in cui siamo rimasti a Kyiv e in quel caso era impossibile non sentirli, ritrasmessi com’erano dagli altoparlanti in ogni stanza dell’hotel.
La prima notte, sono sceso nel rifugio con i miei compagni di viaggio, più eccitato dalla nuova esperienza che spaventato. Dalla seconda ho deciso che all’invito a scendere nel rifugio mi sarei semplicemente voltato dall’altra parte, e così ho fatto per tutta la settimana.
La mia noncuranza non aveva fondamento in un particolare coraggio, ma in una combinazione di pigrizia e calcolo razionale, basato sul fatto che in una città grande come Kyiv gli incidenti stradali rimangono una causa di morte o ferimento più probabile dei missili russi. Un po’ come se il mio cervello avesse deciso che visto che in ogni caso non mi sarei alzato per mettermi al riparo, non aveva senso farmi svegliare. Ma da un po’ di tempo, le cose sono iniziate a cambiare
Una notte dello scorso novembre mi sono trovato ad aprire improvvisamente gli occhi senza sapere esattamente il perché. Prima che potessi guardare l’ora o capire cosa fosse successo, una forte esplosione è rimbombata nel cielo e un lampo di luce si è riflesso sulla finestra. Era il boato simile ad un tuono dei missili antiaerei che scoppiano in cielo. Qualche attimo prima, un’altra esplosione - non più forte né vicina di tante altre - mi aveva svegliato, per la prima volta, dal mio sonno incurante.
Bombardamento dopo bombardamento, senza nemmeno accorgermene, avevo iniziato a essere sempre più sul chi vive. Una settimana fa sono addirittura sobbalzato. L’allarme aereo è suonato insolitamente in pieno giorno e, prima che la sirena terminasse la sua nenia, ho sentito quattro esplosioni in rapida successione. Si trattava di un nuovo tipo di missile che dalla Crimea occupata impiega meno di cinque minuti ad arrivare in città. Avevo le finestre aperte e le esplosioni le ho sentite forti. Per la prima volta mi è uscito dalla bocca un improperio volgare genericamente indirizzato alla Russia e a Putin.
Oggi mi sveglio ad ogni attacco e sono sufficienti le sirene d’allarme a farmi aprire gli occhi in piena notte. Non quelle dell’applicazione del telefono poggiato sul comodino - disattivata molto tempo fa - ma quelle dell’impianto d’allarme cittadino, più deboli di un clacson suonato in una strada vicino.
Resto ancora un noncurante. Al suono delle sirene non mi precipito in metropolitana, né mi sdraio nella vasca da bagno. Di solito dopo l’allarme - che in genere precede l’attacco di un paio d’ore - mi riaddormento. Quando arrivano le esplosioni seguo l’attacco sui social e se è particolarmente intenso mi alzo poco convinto per raggiungere l’anticamera, dove un tramezzo mi separa dalla fila di tre finestre che danno sulla strada. Se l’allarme scatta in pieno giorno, sento i piedi muoversi da soli verso il mio piccolo rifugio.
Non è un cambiamento di abitudini che ha a che fare con la razionalità o una modifica delle condizioni sul campo. I bombardamenti non sono diventati più pericolosi. I fatti statistici che usavo per giustificare la mia noncuranza sono rimasti gli stessi ora che mi sveglio persino al suono di una sirena lontana.
Piuttosto, ha a che fare con il lento logorio dovuto a una costante fonte di tensione. Lo stress, piano piano e spesso senza che nemmeno ce ne rendiamo conto, si scava una tana nelle nostre sicurezze. L’udito si fa più fino, i riflessi più pronti - come l’animale abusato pronto a scattare se vede alzarsi la mano del padrone.
Mi ci è voluto un po’ di tempo per accorgermene, anche perché - diciamoci la verità - la tensione a cui sono sottoposto è minima. Vivo in una parte sicura della città, sono qui di mia volontà e potrei andarmene in ogni momento. Questo non è il mio paese e, mentre le sirene mi svegliano, la mia famiglia e la maggior parte delle persone che mi sono care sono lontane e al sicuro.
Ma si può provare a immaginare cosa provi un ucraino, che magari vive sulla riva sinistra del Dnipro, lontano dalle difese aeree, o in una delle decine di città che di difese non ne hanno punto. O cosa prova un palestinese, che di esplosioni ne ha sentite centinaia a notte per settimane, sapendo che ogni scoppio poteva essere quello di una bomba che radeva al suolo un palazzo con tutti i suoi abitanti.
Ci si abitua a tutto e l’impulso ad avere un simulacro di vita normale anche durante una guerra è capace di superare ostacoli inimmaginabili - è uno dei temi su cui torno più spesso. Ma non significa che ciò a cui ci abituiamo ci faccia bene. Ci si abitua anche all’alcol, dopotutto. Ci abituiamo a qualcosa che piano piano ci scava a dentro, trasformando la routine in una sequenza di gesti meccanici che di normale hanno solo l’apparenza.
Quello che vale per gli individui vale anche per le società. Si abituano alla guerra, trovano modi impensabili per sopravvivere, ma nel frattempo, sotto una superficie di locali aperti e grandi magazzini pieni, nutrono traumi che, prima o poi, vengono a chiedere il conto.
Oltre un mese dall’ultimo aggiornamento mi sembra un momento buono come un altro per tornare a scrivervi. E visto che ultimamente ho l’impressione di aver parlato più che a sufficienza delle mie opinioni sul conflitto, ho pensato di tornare a parlare in modo un po’ più personale di questa esperienza - e ho in programma di farlo anche nella prossima newsletter, a cui sto già lavorando. E che arriverà prima di un mese, spero.