Per chi dovesse capitare qui per la prima volta, mi chiamo Davide Maria De Luca, sono un giornalista e da poco più di un anno vivo a Kyiv dove faccio il reporter di guerra. Nell’ultima puntata di questa newsletter ho parlato del rapporto tra Donald Trump e l’Ucraina. Se ti piace quello che leggi, condividilo con qualcuno a cui pensi possa interessare. E se vuoi sostenermi, puoi iscriverti alla newsletter o seguirmi su X.
È passato poco più di un anno da quando mi sono trasferito in Ucraina. In questo periodo ho avuto l’opportunità di visitare quasi tutto il paese, da Kharkiv ad Odessa; sono stato almeno una volta in tutti i settori del fronte, da Vovchansk a Orikhiv, fino a Kherson; ho conosciuto decine di persone, ascoltato centinaia di storie, provato quasi tutti i cibi, visto dozzine di film e iniziato ad imparare la lingua.
Sono ancora lontano dall’essere un “esperto” di Ucraina, titolo che si ottiene dopo una vita di studio, ma in questo periodo penso di aver appreso alcune lezioni che penso possa essere interessante condividere con voi. Approfitto quindi di questo “anniversario”, per raccontarvi qualcosa di quello che ho imparato e, magari, di quello che intendo fare in futuro.
È una guerra brutale
Lo scorso luglio, stavo facendo lezione di ucraino quando una serie di esplosioni hanno fatto tremare le finestre aperte del mio soggiorno. Con Marina, la mia insegnante, ci siamo guardati negli occhi, incerti sul da farsi. Armati di stoicismo kyivano, abbiamo deciso di concludere la lezione. Appena terminato, ho preso il mio registratore e sono uscito, in cerca del luogo colpito dall’attacco. Pochi minuti dopo ero alla clinica Okhmatdyt, il più grande ospedale pediatrico dell’Ucraina, appena sventrato da un missile russo.
Quella che Putin ha lanciato in Ucraina è una guerra di aggressione ed è una guerra sporca - non solo perché le guerre pulite sono astrazioni nate nelle menti degli interventisti liberali degli anni Novanta. In Ucraina, le armi russe vengono spesso rivolte contro i civili. A volte per errore, spesso per noncuranza, in molti casi perché proprio quello è l’obiettivo.
A volte gli ucraini per rappresaglia “puniscono” città russe o occupate dalla Russia, come Belgorod e Donetsk. Tuttavia non c’è paragone tra il volume e la sistematicità della violenza contro gli inermi che esercitano le due parti.
È importante mantenere il senso delle proporzioni, soprattutto mentre in Palestina è in corso un conflitto che ha causato persino più vittime tra i civili e in una frazione del tempo, producendo, in percentuale, distruzioni materiali ancora più vaste. Tuttavia non ci sono dubbi sul fatto che questo è un conflitto brutale, la cui violenza ha fatto molto per rinsaldare la volontà degli ucraini di resistere.
L’identità ucraina non è mai stata così forte
Nella centro della città di Sumy, nel nord-est dell’Ucraina, un gigantesco murale raffigura una fabbro in uniforme militare. Alle sue spalle, una grande bandiera, e, stretto stretto in una tenaglia, pronto ad essere colpito con un martello, il tridente, l’antico simbolo nazionale ucraino. Il messaggio è inequivocabile. Il fuoco della guerra sta forgiando la nazione.
L’idea che esiste una nazione chiamata Ucraina, separata e indipendente dai suoi vicini, e che esiste un popolo, chiamato ucraini, con la sua storia e le sue caratteristiche, non è mai stata così forte. Possiamo discutere su quanto questo convincimento fosse egemone fino a qualche anno fa, ma oggi non ci sono più dubbi.
La divisione linguistica del paese, rimasta in percentuale stabile dall’indipendenza fino al 2014, ha iniziato a vedere un significativo spostamento verso la lingua ucraina proprio a partire dal 2022. I dubbi, ancora presenti dopo Maidan, sulla direzione che il paese avrebbe dovuto prendere, verso l’occidente oppure verso oriente, sono stati in accantonati sotto gli spietati bombardamenti del Cremlino. Putin, ha scritto lo storico ucraino Yaroslav Hritzak, si è dimostrata il più grande de-russificatore dell’Ucraina.
Questa “nuova” ucraina si definisce innanzitutto in opposizione al suo attuale avversario. Si stringe intorno ai simboli della resistenza al grande vicino - anche i più controversi, come i partigiani anti-sovietici ispirati agli ideali del fascismo. Il rigetto del comunismo sovietico è diventato rifiuto di tutto ciò che appare socialista. Quella ucraina è una società individualista, dove in pochi credono nel potere dell’azione collettiva, sia essa quella dei partiti o dei sindacati.
L’unità intorno a questi vaghi principi è frutto del tempo di guerra, si coagula intorno a un pugno di simboli potenti e con un chiaro obiettivo nel breve termine, sopravvivere, non permettere al nemico di dichiarare vittoria. La sua solidità potrebbe sciogliersi quando cesserà la pressione esterna che la tiene compatta, rivelando le divisioni e le fratture che essa nasconda (qualcosa in più su queste divisioni più avanti).
Tuttavia, con l’invasione del 2024, una certa idea di Ucraina, post-nazionale, multilingue e multiculturale - “sovietica”, direbbe il sociologo Volodymyr Ischenko - ha visto probabilmente il suo definitivo tramonto.
L’Ucraina resta un paese diviso
Il film Volcano, del 2018, racconta l’incontro tra un kyvano che lavora per un’organizzazione internazionale e la selvaggia regione di Kherson, un tempo cuore della cantieristica dell’Unione sovietica e diventata una terra desolata dopo l’indipendenza. Di fronte alle quotidiane ingiustizie e prepotenze che si verificano intorno a lui, il protagonista incalza il suo compagno, un khersoniano che vive alla giornata. «Hai fatto Maidan - gli dice - hai fatto la guerra, perché non reagisci. «Maidan è là e di là c’è la guerra - gli risponde - Qui abbiamo solo l’anarchia».
Le diseguaglianze non sono mai così acute come quando a un estremo si vive una ricca città con un generatore indipendente e a quello opposto si muore senza munizioni in una trincea colma di fango. E l’Ucraina era già un paese profondamente diviso economicamente e socialmente, molto più che culturalmente - checché se ne dica - anche prima della guerra.
Alcuni critici del percorso economico dell’Ucraina post-indipendenza, l’hanno provocatoriamente definita il più settentrionale dei paesi del Sud del mondo. C’è una nuce di verità nel fatto che, come in un paese in via di sviluppo, nella capitale Kyiv si vive come in ogni altra grande metropoli europea, mentre le sterminate campagne ricordano il Mezzogiorno degli anni Cinquanta.
Sono differenze generano incomunicabilità. Tra élite intellettuali e la classe lavoratrice c’è un golfo di incomprensione che a sua volta produce diffidenza e persino disprezzo. Lo si vede nei post Telegram dei super-patrioti, che mortificano i loro concittadini meno abbienti per la loro supposta mancanza di entusiasmo per la mobilitazione, riflesso del disprezzo che la provincia serba per Kyiv, una città che, come ripetono molti, non ha ancora vissuto la guerra.
Un fenomeno che conosciamo bene anche in Europa, ma che è allo stesso tempo magnificato e messo a tacere dalle necessità del conflitto.
In Ucraina resiste la società civile vitale
La prima volta che sono stato in Ucraina, nel maggio del 2023, ho partecipato a un incontro con una giornalista della televisione pubblica, Suspilne. Dopo averci spiegato come funzionano i media durante la guerra - i principali canali televisivi pubblici e privati si sono riuniti in una “maratona” che trasmette costanti notizie sul conflitto - è passata a illustrarci il suo punto di vista: ossia come questo sistema rischiasse di soffocare la libertà di stampa. Quando le abbiamo chiesto se potevamo riportare le sue parole e citarla nei nostri articoli, ci ha risposto che non aveva alcun problema.
Persino durante la guerra, la società ucraina rimane vitale. Anche se il governo mantiene una salda presa sulle televisioni e controlla alcuni dei principali canali Telegram (il sistema che quasi metà degli ucraini usa per informarsi), la stampa libera rimane critica. Continua a fare inchieste e domande scomode, a denunciare la corruzione, a interrogarsi, anche duramente, su come viene condotta la guerra.
L’Ucraina ha una democrazia imperfetta e una società divisa, ma è una nazione ancora lontana dall’essere passiva o irreggimentata. E mentre nel nostro europeo cortile di casa vediamo una repressione sempre più forte del dissenso, sia esso per la nostra politica nei confronti di Israele o per le manifestazioni contro l’inazione di fronte alla crisi climatica, sarebbe bene fermarsi un secondo prima di criticare questo paese.
Non sarà il popolo a mettere fine alla guerra
Qualche mese fa la mia amica Yulia si è arruolata volontaria. Era da tempo che ci pensava. Dall’inizio dell’invasione aveva aiutato il suo paese come poteva. Donando soldi alle forze armate, aiutando giornalisti come me a raccontare il conflitto. A un certo punto, però, le è sembrato non bastare. Come centinaia di migliaia di altri ucraini, ha deciso di abbandonare la vita civile e di partire per il fronte.
È vero che il paese è sempre più diviso tra un’élite - soprattutto culturale e di educazione - determinata a proseguire il conflitto costi quel che costi, e una classe lavoratrice sempre più passiva di fronte ai sacrifici che questo comporta. È vero che il dibattito interno è più vitale e molto più critico nei confronti delle scelte della leadership di quanto spesso immaginiamo. Allo stesso tempo, bisogna fare attenzione a non far discendere da tutto questo grandi conclusioni nel breve termine.
La stanchezza di una parte significativa e crescente degli ucraini non produrrà automaticamente la fine della guerra. Il governo ucraino guarda con attenzione ai sondaggi e di certo sta facendo i suoi calcoli di fronte alla pluralità di coloro che si dicono pronti a iniziare trattative. Ma sotto legge marziale e con elezioni sospese, il margine per il dissenso, sopratutto se organizzato, è sottilissimo.
A questo va aggiunto che sono tuttora moltissimi gli ucraini che di trattare non vogliono sentire parlare. E anche tra coloro che chiedono negoziati, parecchi mettono come condizione che non ci siano rinunce al territorio nazionale.
Le nazioni moderne sono grandi incassatrici. Hanno la capacità di resistere a sacrifici immensi, di mobilitare milioni di cittadini e di vederne morire centinaia di migliaia senza per questo finire travolte dal dissenso, dalle proteste e dalla rivoluzione. In altre parole, non c’è da aspettarsi una fine della guerra che arrivi dal basso, un crollo del fronte interno come nella Russia del 1917. Sarà la leadership di Kyiv e, in secondo luogo, quella dei suoi alleati a decidere quando sarà il momento di farla finita.
Se siete arrivati a leggere fino a qui lasciate che vi ringrazi e, se siete lettori veterani, lasciate che lo faccia due volte. Se appartenete alla seconda categorie, sapete probabilmente che la regolarità degli invii non è parte del patto che questa newsletter vi chiede di sottoscrivere. E non ho ragione di pensare che le cose cambieranno. Le ambizioni, qui, restano modeste, ma in un anno, questa newsletter portata avanti senza alcuni sistematizzazione ha raggiunto 500 iscritti. Un piccolo numero, ma che mi riempie di soddisfazione. In cantiere ho qualche altro progetto di cui spero di potervi parlare presto. Se volete restare aggiornati, basta inserire qui sotto la vostra email.
Ciao Davide, volevo chiederti, nella tua esperienza: quanto è diffuso l'ucraino e qua to rimane forte l'uso del russo? Ho visto soldati combattere al fronte, disprezzare la Russia ma scriverne in russo. Come superano questa contraddizione?